La Rivista Culturale

venerdì 7 gennaio 2011

Quando tiri in mezzo Dio, o il Destino o chissà che.

Mi sto lavando i denti, azione automatica che innesca una serie di pensieri che non scivolano via con l'acqua, giù dal rubinetto.


Mi sto lavando i denti e intanto, qualcuno, in un angolo a caso di questa Terra rotonda, muore.

La Morte, misteriosa presenza di cui si conosce soltanto la voragine di assenza che lascia,
che si porta via un corpo e la sua anima.
Per quanto la si viva quotidianamente, continua ad essere il più naturale degli eventi, insieme alla Nascita.

Continuo a sfregarmi i molari, il dentifricio mi ha invaso la bocca col suo sapore prepotente.


La domanda più comune, quella che sorge spontanea che rimane insoluta è: Perché?
alla tv tutti gli abitanti dei Paesi più sfortunati fanno da sfondo delle nostre giornate.
Muoiono in guerra, per fame, su una mina, a causa di un attacco terrorista, travolti da uno tsunami.
Anche lì ci sfiora quell'interrogativo, quel Perché? senza risposta.
Ma non fa baccano, non ci disturba più di tanto.
È la routine che tutti condividiamo, è il nostro sottofondo di giornata, quella morte.

Poi, un giorno che dovrebbe essere di festa, è la tua di routine, a essere stravolta.
Una famiglia concreta, che vive in una casa che hai visitato molte volte, hai visto crescere i figli, una famiglia che non guardi da uno schermo televisivo al tg delle 20.00.
Allora lì qualcosa non va più com'era nei tuoi piani e ti senti presa in giro.
Dalla beffa della Natura, che molti ribattezzano "Destino", perché magari, in questo modo fa meno paura.
Ed è solo silenzio di fronte al dolore che grida Perché, di fronte a un'adolescente che in un attimo ha vissuto tutte le età, si è ritrovata già grande, senza che nessuno facesse in tempo a spiegarle come si fanno a costruire i ricordi.


le setole dello spazzolino graffiano le gengive, seguono il ritmo dei pensieri che ora diventano incalzanti, e un po' di sangue si mischia al dentifricio, sputato dalla bocca.


E i rosari recitati in chiesa, accendendo ceri di speranza che si consuma più in fretta della stessa candela.
E i dottori, l'odore di un ospedale che un minuto prima sapeva di buono, ora è solo puzza di marcio.
E le telefonate a straziare quel po' di cuore che è rimasto vigile, in tutto questo dolore.

Ed è così che si muore.

Poi si può scegliere se prendersela con Dio.
Se lasciar perdere tutto e rinchiudersi in sè.
Se riavvolgere il nastro per bloccarlo alla sua ultima conversazione con te, a quando ti ha prestato quel coprispalle nero, ai suoi viaggi sempre rimandati.
Non poteva saperlo, l'ha colta all'improvviso, i medici hanno fatto il possibile.
No che non è un film, sono battute recitate anche nei copioni della gente comune, quella che festeggia l'arrivo del 2011 ma senza tutta quella gioia che si sarebbe augurata.
Quella gente che ha subito uno smacco alla propria routine.

Ultimo risciacquo, chiudo il getto del rubinetto. 
Rimane una macchia, ma non sui denti.








martedì 4 gennaio 2011

il Banchetto dell'Amore - Feast of Love



Un intreccio di storie d'amore, di abbandoni e di nuovi incontri: un film di possibili realtà.
Moderni Romeo e Giulietta, tradimenti e matrimoni, il verosimile è in scena sotto l'occhio vigile di un Morgan Freeman saggio e (anche lui) innamorato. Della moglie e della vita.
Un sottofondo perfetto, decisamente azzeccato per la mia giornata.
Giornata di righe scritte e rimaste lì, appese a un post virtuale. E passate attraverso qualche paio d'occhi, non so fino a quale profondità.
Il film invade lo schermo e la serata, sorprendendomi con una chicca di qualche secondo, nel mezzo, un leggero sottofondo Falling Slowly, note che non scappano via, senza che me ne accorga.
Ancora una volta, la musica.
Ingurgito tutto, ogni scena nella sua semplicità, fino alla fine, coi titoli di coda e un abbraccio che mi tiene stretta a sè ma non mi lascia cadere lentamente, come canta questo squarcio di video.

Falling Slowly_Glen Hansard & Marketa Irglova



Lusso calma e voluttà.

Tutto nasce osservando Matisse.
Ha dipinto un quadro riempiendolo con pennellate che lo rendono quasi un mosaico di colori accesi.
Mi ha dato una spinta al polso, la visione di quest'opera. Ed ecco la voglia di scrivere, di abbandonare me stessa a una qualche voluttà artistica.

Era come schiava del proprio corpo.
Si lasciava scuotere da quelle vertigini interiori che le facevano perdere ogni equilibrio, trapezista impazzita di un circo folle.
Seguiva solo il ritmo del proprio respiro, perché una qualche musica doveva esserci, per forza, per ogni attimo.
E la sua non stonava mai.
Erano carne aggrovigliata, ossa a cercare l'incastro perfetto, occhi dispersi nel piacere.

Una coppia invidiabile. Giovani, sorridenti, innamorati.
Era solo lei, a inciampare, qualche volta, sui suoi stessi passi. Da sola.
Lui si limitava ad accettare le sue piccole stranezze, gli improvvisi cambi d'umore, i sorrisi camaleontici, che un respiro dopo non c'erano già più.
Perché c'era qualcosa di lei, qualcosa intrappolato ancora più in fondo di qualunque punto lui potesse raggiungere con le sole dita, qualcosa che si nutriva di tutti i silenzi che si depositavano in lei, strato dopo strato. E niente e nessuno, avrebbe scavato tanto a fondo da arrivare fino a tutta quella poltiglia.

Non mostrava nulla di particolare, all'aspetto.
Un viso senza segni particolari, un paio d'occhi sul quale più di un ragazzo le aveva rifilato degli apprezzamenti piuttosto banali, braccia, gambe, petto e dentro un cuore. Ammaccato, ricucito, ma intero.
Come ogni cuore, del resto.
Eppure la sua pelle racchiudeva segreti che solo sotto tutti quegli strati di nascondiglio potevano respirare.
Riaffioravano se sollecitati dalla curva disegnata dalla delicatezza di un dito altrui.
Si emozionavano, loro.
E lei non ci capiva più niente, così, all'improvviso.
Schiava del proprio corpo: aveva deciso di lasciarsi andare alla giostra di una carezza, senza pagarne il biglietto.

Era dolce, sì, su questo non ci sono dubbi.
Terribilmente dolce.
Romantica e ingenua, così la vedevano, gli altri.
Come la definisci altrimenti, una che la incanti con due versi di canzone?
Che ti basta davvero poco a far emozionare?
No, beh, non è che tutti ci riuscivano subito.
C'era chi aveva provato per un po' a scassinare quel lucchetto che lo separava da quegli occhi forse azzurri e forse no. Belli, quello sì.
C'era chi mollava la presa subito, che non gliene fregava poi tanto di quella ragazza, alla fine, normale. Una come tante, forse con una dose di zucchero in più.
C'era anche chi si credeva il principe salvifico, convinto che con un bacio l'avrebbe avuta per sempre.
Ce n'erano tanti, insomma.
Poi c'era stato lui.
Mille altri potevano passare, sfiorandole la schiena per solleticarle i brividi.
Ma lì, incastonato nel posto più difficile da scovare per cacciare via, c'era lui.
Lui con le sue passioni, con le sue musiche dannate, che le inondavano la testa fino a temere che scoppiasse, fino a farle lacrimale chicchi di sale, perché dentro di lei non ci poteva stare più niente, se non la loro poesia.
E c'era stato per un bel po', ad occuparle gli atomi e i pensieri.
A giocare a chi rubava più respiro all'altro, sempre così, sempre in silenzio.
Perché lo aveva sentito in qualche film, che l'amore romantico è quello inappagato.
Finchè il Tempo, il Signor Tempo, capace solo di correre con tutto il fiato verso un traguardo immaginario, se l'era portato via.
Via.
Insieme a tutte le note suonate e ascoltate insieme, alle parole, ai segreti.
Ma lei gli era sopravvissuta, lo aveva fatto riempiendo le pagine coi ricordi, con tutta la dolcezza che adesso non aveva più un destinatario, busta aperta senza lettera, canzoni che rieccheggiavano in stanze vuote.
Non riusciva a esorcizzare la sua presenza nell'assenza, e questo la terrorizzava.
E mille altri continuavano a passare, e mille brividi restavano imprigionati su quella pelle, senza attraversarla più.

Fino a quando.
Perché anche in questo genere di storie non troppo assurde, anzi, normali, quasi banali, c'è una svolta.
C'è un ritorno.
C'è un viso vecchio che sa di nuovo, che si appoggia al suo, al volto di lei, e lì in quell'incontro,ci ritrovano il mondo.
E non hanno paura di confessarselo, anche se i sentimenti sono sempre un po' così, quasi timidi, imbarazzati, come si trattasse di compiere eroiche gesta.

Lei lo sapeva, lui no.
La stava aiutando a togliere una corazza invisibile e inconsistente al tatto.
Apriva la campana di vetro sotto la quale lei aveva deciso di intrappolarsi per respirare ancora un po' di quel sapore di passato che le dava un surrogato di felicità.
Ma lui era così, era semplice e disinteressato.
E solo questo lo rendeva amabile.
La faceva rivivere, la rendeva schiava del proprio corpo, le regalava la felicità, quella che non ha bisogno di soffocare sotto strati di pelle, quella che si lascia scoprire in tutti i suoi brividi lungo la schiena.
Quella che riempie i polmoni di aria e sa gridare, che non deve trattenersi.
Che deve smettere di aggrapparsi a quel voler rendere tutto speciale, perché lo è già di per sè.

. Una storia come tante, condita con la parola Amore tra le righe
una storia egoista, che aveva bisogno di trovarsi uno spazietto anche piccolo, ma fuori da lei .


                                                      Henri Matisse: Lusso,calma e voluttà (1905)