La Rivista Culturale

mercoledì 14 settembre 2011

Quattro Stracci.

Ti attraversa gli occhi quel lampo, gelido e penetrante, di quelli che mi si conficcano tra il cuore e un polmone.  Respiro appena, mi arrampico al poco ossigeno che mi rimane attorno, perché lo hai ingoiato tutto tu, il resto. Per gridarmi addosso tutta quella dannata verità. 

Su quanto io sia infantile. 
Ne ho bisogno, sei il mio promemoria in carne e ossa, sei la persona che mi regge lo specchio. 
È grazie a te se riesco a migliorare il peggio che ho.
Ma come faccio a parlare, se mi manca l'aria.
Taccio, inerme.
Aspetto la parola giusta, la frase a mia discolpa. Che però, non arriva. Vorrei riavvolgere il tempo di pochi minuti, controllare una reazione, cambiarmi il carattere. Con una magia. Come non può accadere, nella realtà. Perché questa è fatta da scelte concrete, attimi che ti passano tra le mani e devi essere tu veloce a serrare i pugni per intrappolare le manciate di secondi. Per non pentirti poi, per non aver bisogno di correre a cercare la parola giusta, la frase a tua discolpa. 
E mi sento colpevole, per il non sapermi controllare. Per le emozioni che mi sorprendono con la loro puntualità inaspettata, e mi scaraventano secondo la loro corrente. Non sono brava a nuotare in questo mare, non sono abile a improvvisare, a mettere punti fermi, boe per stare a galla. 
E, appesantita, sprofondo.

Poi quel lampo ti è sparito.
E sei andato via, insieme a quel po' di delusione che accompagna sempre la fine di un litigio.
E ora che mi è rimasto solo l'eco delle tue parole, cosa me ne faccio di tutto quest'ossigeno che mi entra dentro, se non posso più sentirmi soffocare davanti a te?

[...]
La fantasia può portare male se non si conosce bene come domarla, 
ma costa poco, val quel che vale, e nessuno ti può più impedire di adoperarla; 
io, se Dio vuole, non son tuo padre, non ho nemmeno le palle quadre, 
tu hai la fantasia delle idee contorte, vai con la mente e le gambe corte, 
poi avrai sempre il momento giusto per sistemarla: 
le vie del mondo ti sono aperte, tanto hai le spalle sempre coperte 
ed avrai sempre le scuse buone per rifiutarla! 

Per rifiutare sei stata un genio, sprecando il tempo a rifiutare me, 
ma non c'è un alibi, non c'è un rimedio, se guardo bene no, non c'è un perchè; 
nata di marzo, nata balzana, casta che sogna d' esser puttana, 
quando sei dentro vuoi esser fuori cercando sempre i passati amori 
ed hai annullato tutti fuori che te, 
ma io qui ti inchiodo a quei tuoi pensieri, quei quattro stracci in cui hai buttato l' ieri, 
persa a cercar per sempre quello che non c'è, 
io qui ti inchiodo a quei tuoi pensieri, quei quattro stracci in cui hai buttato l' ieri 
persa a cercar per sempre quello che non c'è, 
io qui ti inchiodo a quei tuoi pensieri, quei quattro stracci in cui hai buttato l' ieri 
persa a cercar per sempre quello che non c'è...
[Quattro stracci_F. Guccini]

the pride_William John


“Chiunque può arrabbiarsi, questo è facile. 
Ma arrabbiarsi con la persona giusta, e nel grado giusto, e al momento giusto, e per lo scopo giusto, e nel modo giusto:
 questo non è nelle possibilità di chiunque e non è facile”. Aristotele



mercoledì 7 settembre 2011

uno stralcio di racconto ripescato dal tempo..

"Fammi la magia dell'inchiostro blu." Tono senza richieste, al tabacco.
Il mio editore mi è di fronte, schiacciandomi coi suoi occhi color ebano.

Ha espresso una richiesta, e si aspetta che io la esaudisca.
Dita -le mie dita- contratte, per afferrare la labilità di un pensiero.
Quanto le ho allenate, a catturare quelli che dai più vengono chiamati "attimi".
Uno scatto e percorrevano il tragitto che le separava dalla pagina vergine e senza peccati.
La scia si posava con eleganza impetuosa sul bianco, impietosa decorazione di parole.
A colorare l'anima senza sangue di un foglio.
Sfumarne i possibili significati, smussarne gli angoli.
Impastarsi con la sua impassibilità e infondergli un bagliore di vita
Mettevo in circolo l'inchiostro per attivarne il cuore.
"Non posso." Appena sussurrato. Appena.
Nessun organo avrebbe potuto sopravvivere senza la carica dei battiti cardiaci. Nessun corpo. Neppure quello immobile di una patina di cellulosa.
Ho una necrosi del cuore in corso, mi dispiace Franco, nessuna magia sul tuo palcoscenico.
"Dopo l'ultimo racconto mi aspettavo qualcosa di più che una dichiarazione di incapacità. Mi deludi, sai?"
E se ti dicessi che lì dentro, in quello che definisci "racconto", ci avevo riversato tutto l'inchiostro contenuto nella gabbia toracica, proprio lì, tra i due polmoni?
Ho rischiato di soffocare, vittima del mio stesso trucco da prestigiatrice folle.
So che ti aspetti una mia iniezione di liquido blu.
È inutile che aspiri con più vigore, la sigaretta non può ribellarsi alla sua fine imminente, morirà bruciando di se stessa e su questo sì, hai il potere.
Alzo lo sguardo, incontro i tuoi occhi interrogativi e inizio a spogliarmi, lentamente, strato dopo strato di anima.
"Si, sono incapace. Di provare emozioni che trasformino l'astratto in parole che siano concrete. Di guarire dalle metastasi che mi impediscono di provare quello che la gente comune sperimenta, con cadenza quotidiana. Di sezionare il mondo con l'unica arma di cui ero provvista per affrontare le insidie che uccidono, la mia penna, scudo e fionda al tempo stesso.
Prima di conoscerti non potevo fare a meno di appuntare, registrare, immortalare esistenza, per ogni frangente di eternità.
Lo facevo per svuotare il male che si radicava nei nascondigli di un corpo giovane e instancabile come il mio. Ne ero dipendente, lo so.
Ma di quella droga non sarei morta, se non volontariamente.
Mi macchiavo di colpe che non avrebbero potuto essere assolte eccetto che con una confessione.
E questa arrivava, puntuale e precisa, con le mie storie. Solo loro mi pulivano.
Però poi, grazie allo sporco mondo dell'editoria, ho scoperto che non serve purificare l'anima per ottenere un Giubileo della durata di una storia da raccontare.
Pensavo ci si salvasse scrivendo, distillando goccia a goccia gli umori cattivi, sfino a sfiorare la maniglia di un Paradiso inarrivabile ma evidente.
Allora la pagina non era più una zolla pura da fertilizzare con semi di eloquenza, era un campo da arare per raccogliere i frutti già maturi che la penna materializzava.
E il contenitore di inchiostro, il calamaio e tutte quelle righe sconnesse ma così cariche di espiazione mi rendevano perpetuamente grazia.
Sei arrivato tu e hai risucchiato tutto, con la tua avidità.
Ti deludo, ma mantengo il mio onore. Non sono la tua sigaretta, decido io quando smettere di esistere per te."
Monologo di aria e rumori. Nessuna scia di inchiostro.
Dita -le sue dita- contratte, per afferrare una risma di fogli bianchi e gettarmela addosso.
Che dolce, questa cascata di candore su di me.
Socchiudo gli occhi, lascio che piovano sottili gocce cartacee e, come l'ultima lacrima di un calamaio, sparisco.