La Rivista Culturale

lunedì 30 settembre 2013

30/09/1930

Nascevi per primo, in una casolare di Lendinara. Il Veneto te lo sei portato dentro per tutta la vita, stampato nel tuo dna, nella tua voce, nella tua tempra.
Primo di quattro fratelli.
Contadino, operaio, muratore.
Figlio, marito, padre.
Nonno.
I tuoi pomeriggi di infanzia a petto nudo sotto il sole, a correre col cavallo "del padrone", perché tu eri figlio di poveri. Ecco perché tutti ti chiamavano "il Moro".
Carnagione scura e sorriso in volto.
Decine di lavori diversi, alcuni improvvisati, altri di necessità.
"Ah si, tuo nonno veniva qui a scavare le fosse, nessuno lavorava bene come il Moro... entrava la mattina con la pala in mano e nel giro di qualche ora aveva scavato tutto!"
Anni di infaticabile lavoro nel cimitero in cui poi non hai voluto finire.
Tenace, fino all'ultimo secondo.
Distribuivi il giornale del partito, il tuo sempre amato partito comunista.
Così hai conosciuto la  Diva, la moglie che con te ha condiviso un enorme pezzo di vita.
Nelle foto di gioventù, quelle in bianco e nero, siete più belli di due attori.
Te lo dicevo spesso, quando mi capitavano tra le mani, "va che figo il mio nonnino". Tu ridevi.
La tua risata. Ci inondava orecchie e cuore.
E poi il vino, altro tuo immancabile compagno di vita.
I racconti delle tue "gaine" memorabili, che anche se la vita era difficile, trovavi sempre un modo per far festa.
Il tuo passo veloce, le soste fisse del dopo lavoro. Il Tallarini, bar di ritrovo e di lettura del "Corriere".
A volte ci scappava anche qualche partita a carte coi tuoi amici.
I tuoi amici che da qualche mese a questa parte ti cercano, al cimitero, e non ti trovano.

Lidi Ferraresi in tenda, poi quasi trent'anni di Bibione.
La roulotte più piccola di tutto il Villaggio. Passeggiavi sulla spiaggia, due chiacchiere coi tuoi amici svizzeri e, ovunque andassi, lasciavi il segno. Con un gesto gentile, un aiuto prestato senza voler niente in cambio.
Mani dietro la schiena e una fischiatina.
Ecco come hai affrontato la vita quando hai potuto riposarti, quando hai iniziato a goderti la pensione.
Ma nemmeno allora hai smesso di costruire.
Case per i figli. Bene per chi ti stava accanto.
Ricordi della mia infanzia che hai impresso sulla tua cinepresa di cui andavi tanto fiero.
Crescere con te.

E prima ancora i viaggi là dove trionfava il colore rosso. Russia, Cuba.
Ti accontentavi anche di Bersani, però.
La vecchiaia non ti ha tolto né forze né entusiasmo. Pietra Ligure era il rifugio per gli ultimi inverni, col suo l'appartamentino vicino al mare.
Venivamo a trovare te e la nonna e ci accoglievate con un entusiasmo difficilmente riscontrabile, nella quotidianità.

Ricordo che, certe sere, cucinavi le aringhe e il pesce fritto. Io scendevo la scala silenziosa e ti trovavo in cantina, fischiettavi.Non appena comparivo accanto a te mi chiamavi "Giulietta!"
Giulietta da bambina, Giulietta fino a 23 anni.
Impressa nel timbro della tua voce sicura che amavo.
Poi, un giorno d'estate, il "Corriere" non sei più riuscito a leggerlo al bar.

Ossigeno.
La parola più frequente e odiata degli ultimi mesi.
Bombola di ossigeno. Ossigeno che manca.
E, nonostante tutto, eri a non smettere mai di dare a noi la forza per affrontare la tua malattia.
Con la scusa di aiutarti, ti prendevo a braccetto.
In realtà, me ne accorgo solo ora, lo facevo per poterti stare più vicina, per riuscire a "prendere" da te qualche altro brandello di entusiasmo.

Radioterapia.
Chemioterapia.

Una mattina, mentre aspettavamo che ti chiamassero per la cura, ho scambiato due parole con un'altra donna, un'anziana che come te vestiva la stoffa della combattente. Mi diceva che le piaceva arrivare fino all'ospedale in macchina, nelle mattine di cielo terso. "Sai quel vialone lungo, in mezzo ai campi...ecco, quando c'è sereno si vedono in lontananza le nostre montagne...Grigna, Resegone... mi dà molta gioia poter ammirare tutto questo, prima di arrivare qui."

Metastasi.
Anni dacché avevi smessi di fumare. Ma non importa, non importa più adesso.
Adesso che lotti contro un male che non sembri voler nemmeno accettare, dentro di te. Fai di tutto per scacciarlo dai tuoi polmoni, e lui invece si insinua nel cervello, nelle ossa.

Pomeriggi insieme. Dai nonno, raccontami la tua storia che poi ci scrivo un libro.
La tua risata. Sempre, la tua risata.
Fino alla stanza dell'hospice. Nemmeno lì riuscivi ad accettare quel deperimento. Quegli zigomi troppo in fuori. Ma tu scherzavi, guardavi il tg, festeggiavi insieme al tuo Pierluigi la vittoria - passeggera, ma al momento giusto - del partito per cui hai sempre tifato.

Lunedì.
"Vuoi un gelato, nonno?"
Era un lunedì di marzo, cornetto algida per me e coppetta all'amarena per te.
Nonno e nipote come fossimo tornati indietro nel tempo. Come non avessimo pensieri. E forse tu non ne avevi più davvero.

Le gambe fragili, ossa come di vetro.
Fatica lo sguardo a sostare su di te.
Un misto di rabbia e disperazione ci assale, tutti.
Tu continui la tua lotta silenziosa e sorridente.

Martedì
Il silenzio della morfina.
Impotenza.

Ti accorgi della mia presenza. Ti tengo la mano, ora così sottile, quasi come la mia.
Mi mordo il labbro e ti accarezzo la fronte.
Poi parli. Pronunci tre parole, quasi le ultime. Parole attaccate al poco ossigeno che riesce a entrare in quella bocca spalancata, che ha fame d'aria e di vita.
"Ti voglio bene".
Gli occhi che tornano, per quell'attimo, a brillare.
I miei si inzuppano.

Mercoledì.
"Cercò la sua solita paura della morte e non la trovò. Dov'è? Ma che morte? Non c'era più paura perché non c'era più morte.
Invece della morte, la luce.
– Dunque è così! – disse d'un tratto ad alta voce. – Che gioia!
Tutto questo non fu che un attimo per lui, ma il senso di quell'attimo ormai non poteva più mutare. Per i presenti la sua agonia durò ancora due ore. Qualcosa gorgogliava nel suo petto; il suo corpo macerato si scuoteva. Poi il gorgòglio e il rantolo si fecero sempre più rari.
– È finito! – disse qualcuno.
Egli udì questa parola e se la ripeté nell'anima. «Finita la morte, – si disse. – Non c'è più, la morte».
Trasse il fiato, si fermò a mezzo, s'irrigidì e morì." - (La morte di Ivan Il'ic, Tolstoj)


Troppi, i fiori sulla bara, non saresti stato d'accordo.
Ne meritavi ancora di più, invece.
Il prete ti ha ricordato per quello che eri. Una persona gioiosa.
Un uomo che non ha mai avuto il pudore di salutare.
"Fatevi una mangiata in mio ricordo, poi..."
E così è, adorato nonno. Cercando la forza di sorridere nel ricordarti, al ritorno dal crematorio di Sondrio, in un ristorante vuoto.

Io invece piango ancora adesso, piango per la malinconia di non averti qui.
Piango al matrimonio se la nipote in abito bianco balla abbracciata a suo nonno.
Ballerei persino bandiera rossa se solo potessi riaverti qui.
Mi consolo nel sognarti, qualche volta.

L'urna di legno ha compiuto sei mesi.
Oggi avresti festeggiato gli 83 anni.




"Perché nessuno possa dimenticare di quanto sarebbe bello se, per ogni mare che ci aspetta, ci fosse un fiume, per noi. 
E qualcuno- un padre, un amore, qualcuno - capace di prenderci per mano e di trovare quel fiume-  immaginarlo inventarlo - e sulla sua corrente posarci, con la leggerezza di una sola parola, addio." (Baricco, Oceano Mare)



domenica 1 settembre 2013

Petali rossi per semafori verdi

Il senso di colpa.
La frustrazione per una condizione tanto simile allo schiavismo.
La pietà.
Alla fine, però, a prevalere è l'indifferenza.
Quante volte vorrei tirare giù il finestrino e dargli un euro.
Ma poi, si finisce subito a pensare "beh, ma mica gli cambio la vita, con 1 euro..." e quindi, come sempre, viene ignorato.
Parlo di quel ragazzo dalle fattezze indiane che aspetta, ogni sera, che il semaforo diventi rosso.
Tra quanti solcano la strada ogni giorno, questi poveri venditori di rose sono gli unici ad aspettare che si formino le code.
Le macchine in sosta sono le loro "prede", o meglio dire, la loro "Paga quotidiana".
Non so come funziona il mercato dei venditori di rose ai bordi delle strade.
So che è una delle troppe realtà tristi da cui siamo circondati e, nonostante questo, non avvertiamo quasi  la presenza.
Fuori dal centro commerciale trovi l'africano che ti tende il cappellino salutandoti.
In centro a Milano ti inseguono per rifilarti un libro di storie per bambini, un braccialetto di corda color arcobaleno, un accendino che nemmeno ti serve.
Il marocchino che citofona a casa ogni domenica, e sa che gli arriverà qualcosa, che sia un paio di scarpe usate o qualche moneta.
Ai semafori, invece, i fiori.
Le mimose per l'8 marzo e le rose per tutto l'anno.
Il dispiacere e l'imbarazzo per una situazione che non dovrebbe essere permessa, ai giorni nostri e in un Paese come il nostro.
Ma quanto può durare una riflessione del genere? Quanto realmente poco tempo spendiamo a pensare a come poter migliorare il mondo? Il tempo di un semaforo rosso.
Poi scatta il verde, l'omino delle rose ci saluta, e ci sentiamo subito più sollevati.