La Rivista Culturale

lunedì 2 novembre 2020

Le ultime parole per te. "You just walked away"...


Questa canzone la dedico a te.

 Credo che un nome così sia unico.

Il tuo papà aveva deciso che ti saresti chiamata in quel modo dopo aver visto un film al cinema, dove le attrici erano delle dive. E quindi, sei stata battezzata così: Diva.

Nata nel Veneto, cresciuta con la tempra tipica di quella regione italiana, con il tuo accento inconfondibile che ti ha accompagnata per 86 anni. 

Gli aneddoti sulla tua infanzia non mancavano mai, e alcune volte li raccontavo pure ai miei ragazzi, a scuola, costruendo un ponte tra i loro pochi anni e i tuoi che aumentavano sempre di più. Perché poi quando passavo a trovarti mi soffermavo sugli aggiornamenti scolastici, ti rendevo partecipe delle giornate buone e quelle più difficili. Tu cercavi di supportarmi, ti emozionavi quando ti leggevo qualcosa che un mio studente aveva scritto: era come se potessi vivere un periodo della tua vita che non c'è mai stato, perché la scuola tu l'hai conosciuta solo più tardi, quando ti sei iscritta alle serali per imparare l'ortografia e mandare le lettere "scritte bene" a quello che sarebbe diventato il tuo futuro marito.

Tiro un sospiro, mentre scrivo queste righe, di cui ho bisogno. Voglio omaggiarti nel modo che mi riesce meglio, utilizzando le parole per imprimere e condividere quello che sei stata, per me.

Ti illuminavi, quando parlavi della tua nipotina grande. Mi hai fatto da seconda mamma in tutto, accompagnandomi in ogni fase della mia crescita. La mia riconoscenza nei tuoi confronti è enorme, e spero di essere stata in grado di dimostrarti quanto bene ti ho sempre voluto, anche se eri un osso duro e di farti aiutare non ce lo permettevi mai.

Il periodo più preoccupato l'ho vissuto per cinque anni, mentre mi trovavo lontano da te, su quell'isola che sei venuta a visitare, prendendo il tuo ultimo volo aereo a ottant'anni, per venirmi a trovare, passeggiare lungo la spiaggia (quanto hai sempre amato camminare!), e compiacerti delle attenzioni che non hai mai voluto ammettere di meritare. Ho avuto paura perché nel frattempo il tuo cuore aveva iniziato a fare i capricci, e un mare di mezzo non aiutava a restare tranquilli. Ogni volta che tornavo cercavo di trascorrere più tempo possibile insieme a te, tornando alla nostra routine degli anni precedenti: la colazione alla Pasev il sabato mattina, per viziarci un po', e poi il giro al mercato, con le tue tappe fisse. Un paio di volte sono anche venuta facendoti una sorpresa, senza avvisarti del mio ritorno e la tua gioia era davvero enorme.

Mi portavi in giro come fossi un trofeo, e io mi imbarazzavo, perché ingigantivi sempre le lodi. Una nipote che, sottobraccio, accompagna la sua nonnina a fare commissioni, a passeggiare all'aria aperta, o che va a trovarla per una partita a carte. 

Una volta ho anche inviato la nostra foto, di una gita fatta assieme a Brunate, per un concorso della Ricola (ah, quanto eri golosa di caramelle!): abbiamo vinto il premio del mese e tu ti vantavi di quella conquista (insieme ai tuoi tornei di bocce del mare!).

Un'altra tua passione erano le partite a carte, anche se non sei stata mai molto brava a contarle, giocavi più di pancia che di ragionamento...eppure le ultime mani sia di scopa che di briscola le hai vinte tu, una di fila all'altra, una sequenza di assi, di ori, e di briscole poi che ti hanno gasata, anche se in realtà invece di essere felice per il tuo "bottino", pensavi bene di rincuorarmi dicendo "dai che magari la prossima la vinci tu!".

Ecco, se devo avere un rammarico, una sorta di dispiacere, è proprio questo: il tuo non goderti appieno le gioie della vita, se non per eventi mirati che si contano sulle dita di una mano. Uno dei momenti di cui parlavi spesso era il pomeriggio in cui ero a casa tua e avevo appena ricevuto la notizia di essere passata allo scritto del TFA. Ancora mi mancava l'orale, ma superare quello scoglio mi aveva fatto letteralmente fare i salti di gioia. Allora ho cominciato a urlare in giro per la sala, ti ho presa in braccio e riempita di baci. Tu eri felice, ma non capivi... ti ho spiegato e la gioia non è raddoppiata, ma molto di più. Quel momento te lo sei impresso, perché le conquiste ottenute attraverso lo studio le hai sempre considerate le più importanti. 

Purtroppo invece per il resto tendevi a immalinconirti subito, a concentrarti su quel lato negativo che noialtri cercavamo di ridimensioanre. Invece, agli occhi degli altri, sei sempre risultata una signora temprata, simpatica, tenace.

Anche per convincerti a portare il bastone, che fatica.

Si può dire che ti abbiamo costretta, perché fosse stato per te avresti stretto i denti e tirato avanti così, perché in fondo non avevi niente di che, a tuo dire. E invece noi lo vedevamo, ci eravamo accorti di come questo ultimo periodo ti avesse indebolita, e forse proprio per scongiurarlo, ci eravamo mossi in anticipo, cercando tutti di farti sentire importante, ancora di più.

E così ogni scusa era buona per farti provare qualcosa di nuovo, "Varda ti se una vecia di ottantasei anni va a fare un aperitivo!" e intanto ridevi e ti bevevi il tuo cocktail analcolico. La tua prima volta al Mc Donald con gli altri tuoi nipotini, il tuo stupore nel raccontarmi di come ti fosse piaciuto "Come essere a un ristorante!", hai commentato. E quanto facevi ridere me e mia mamma quando te ne uscivi  con una frase che infilavi in ogni discorso: "Non è il come, ma in quanto!", per dire, a modo tuo, che non contava il "come" veniva fatto qualcosa, quanto il fatto stesso che accadesse.

Da quando sono tornata a vivere sulla terraferma, posso dire di non aver sprecato un'occasione, insieme a te. Vivendo a cento passi esatti da casa tua, cercavo di passare anche solo per un saluto, e tu ogni volta ti ostinavi  a volermi offrire qualcosa, come per darmi un motivo per il mio essere passata, per averti dedicato del tempo. E poi il tuo continuare a ringraziare, quando si usciva dalla porta di casa, mi seguivi con lo sguardo e continuavi "Grazie!", con un sorriso che si percepiva dal tono della tua voce.

Avevo imparato a imprimermi nella memoria del cuore la tua espressione di quei saluti, per la paura che potesse essere l'ultima volta. Parlavamo, ogni tanto, della morte, e tu ti auguravi sempre "Un colpetto, tac!" senza disturbare nessuno.

Venerdì pomeriggio sono stata da te, e per la prima volta nella mia vita mi hai permesso di aiutarti a togliere i vestiti, a infilarti il pigiama - le mie dita ricorderanno per sempre la morbidezza della maglia azzurra che ti ho sistemato, pronta per scaldare il tuo corpo stanco -. Le calze poi, immancabili perché se c'è una cosa che eredito da te è il freddo in qualunque stagione dell'anno, specialmente ai piedi, sempre "giazzà". Impazzire a cercare la boule, io te e Eddy in giro per casa perché non si trovava più ma tu a letto mica ci potevi andare senza la tua compagna di nottate. Una risata quando è saltata fuori, ai piedi del letto, e poi quegli ultimi minuti in tua compagnia, un condensato di dolcezza che mi invade, coprendomi come la coperta dei ricordi indelebili. Ti accarezzavo le gambe, ti coccolavo con gli occhi, perché la bocca era coperta dalla mascherina. Abbiamo riso, ancora insieme, promettendoti che ci saremmo riviste l'indomani mattina, alle 7, per vestirti e fare insieme colazione. 

Quella sera, uscendo dalla tua camera, non ti ho guardata come fosse l'ultima volta, però. 

Ti ho augurato un buon riposo, quello sì. 

E poco dopo, senza far rumore, senza disturbare, la tua anima è volata via.

Quei cento passi che ho percorso appena ho ricevuto la telefonata sono stati uno dei momenti più confusi della mia vita, una sorta di blackout in cui Tutto si è mischiato a Niente. 

Una musica con delle parole che colpiscono duro, profonde e potenti, "About Today" dei National che mi risuona nella cassa toracica, che mi accompagna ancora e mi invade il cuore.

Adesso siamo qui, restiamo a parlare di te, a rievocare il Bene che hai fatto, i battibecchi, gli episodi vissuti insieme. Inevitabilmente pensando a te, pensiamo tutti anche al Moro, l'uomo della tua vita.

E allora, mi piace immaginarti seduta a un tavolo insieme al nonno, di cui sentivi immensamente la mancanza da sette anni a questa parte, con cui ogni tanto ancora parlavi, litigavi persino, lo sgridavi per averti lasciata qui. "El me Vecìn!" lo chiamavi con affetto. 

La tavola a cui vi immagino seduti è quella del campeggio di Bibione, il luogo delle estati della vostra, della nostra vita. Siete abbronzatissimi, come ogni luglio, piazzati alla vostra piazzola nella via numero 12, fuori dalla roulottina (una delle più vecchie e piccole del Villaggio, ma proprio per questo unica nel suo genere). Avete appena finito di mangiare e vi aspetta un primo pomeriggio all'insegna del riposino, perché sicuramente la mattina vi siete fatti una bella manciata di chilometri camminando lungo il bagnasciuga.

Insieme vi alzate, riempiendo la bacinella gialla coi manici ai lati. Vi incamminate lungo il vialetto diretti ai lavelli per lavare i piatti e le pentole del pranzo, tenendo la bacinella un braccio per uno, col nonno che fischietta spensierato, e tu accanto a lui. 

Vi allontanate, di spalle, camminando per sempre, felici, insieme.






sabato 4 aprile 2020

Le parole che salvano, ma a volte non bastano.

Scambiate al telefono, volatili e veloci, capaci di raggiungere orecchie e cuori distanti chilometri e divise da un mare. O un oceano.
Appese al sole di aprile, che forse ha deciso di scaldare i giardini, le frasi da un muretto all'altro, che scavalcano il cemento e rimbalzano in un ping pong con la vicina di casa appassionata di libri e sorrisi.
Parole dentro le mura, con la persona con cui ci si sveglia, ci si addormenta e si condivide un pasto. O dieci anni di vita.
Appuntate su post-it, a far da promemoria in giorni apparentemente tutti uguali, scanditi da ritmi difficili da digerire.
Parole che emergono dalle pagine di un libro che si sceglie per avere un po' di compagnia, quel tipo di compagnia che solo il profumo di carta stampata è in grado di fornire, perché capace di arricchire di esperienze e vite mai vissute, la propria singolare esistenza.
Scritte velocemente su una tastiera, inviate insieme a un'emoticon, per dare un tono semiserio o scanzonato a quel messaggio lì.
Parole che ci salvano, in questo periodo a cui manca la carne di un corpo da abbracciare, un viso da accarezzare, la meraviglia di uno sguardo a pochi centimetri dal proprio viso con cui ridere o al quale confidarsi.

Uno schermo separa, in condizioni di normalità, perché altro non è se non un muro illuminato, su cui puoi avere il mondo a portata di un click, quando invece ci siamo resi conto che il mondo che ci interessa davvero è quello reale, che possiamo toccare, con cui possiamo sporcarci le mani e inzupparci gli occhi di lacrime e sentire con tutti e cinque i nostri sensi.

Però, in questa rielaborazione delle nostre vite, in questo enorme peso (ma anche leggerezza) dato dalle parole, l'augurio è che si dia valore a quelle che per qualcuno erano banalità. Vedere negli occhi un mio alunno mentre mi parla, ora, questo non è più una banalità, è una specie di desiderio. Sì perché le videolezioni sono fatte di parole, parole che ogni insegnante spera non rimangano sterili, ma funzionino come un aratro a versoio, capaci di scavare dentro, anche a distanza. E queste videolezioni sono tutto tranne che vere. Sento le loro voci, alcuni, solo alcuni, fanno capolino dallo schermo, armati di cuffie, di sorrisi, di buona volontà. Ma a me mancano anche gli altri, quelli che forse ancora non hanno capito quanto bene può fare ripristinare, anche solo per un minuto al giorno, un contatto visivo con quegli occhi, di cui stavo imparando a ricavare, silenziose, le loro parole.

Nessuna descrizione della foto disponibile.


mercoledì 18 marzo 2020

Si sta. Come nel mese di marzo. Ognuno a casa propria. A fare videolezioni.

Lo stesso senso di precarietà che aveva Ungaretti, buttato là dentro ad una trincea del Carso.
Non siamo in guerra (anche se dopo i saccheggi ai supermarket delle scorse settimane e l'atmosfera da coprifuoco che aleggia nell'aria, potrebbe sembrare).
Siamo in attesa del ritorno alla normalità.
Aspettiamo di poter tornare alla nostra routine quotidiana, non vediamo l'ora di poter ricominciare a lamentarci del poco tempo che avremo per rilassarci sul divano a guardare quella serie tv che non riusciamo mai a finire, di quel segnalibro che non si sposta da pagina 57, di quella telefonata che siamo sempre costretti a rimandare per mancanza di tempo.

Ecco, quello che ora non ci manca è proprio il tempo.
Le lancette, per alcuni, sembrano non muoversi mai, non scandiscono mattina, pomeriggio e sera, mentre ad altri il giorno non basta mai, per portare a termine tutto quello che si erano prefissati al risveglio.
Io invece...beh, quasi non ho la percezione delle ore che passano, a causa del mio completo assorbimento dalla nuova gestione della didattica, i nuovi progetti, le videolezioni della tele-didattica (il prefisso più abusato di questo periodo!).
Ho sempre avuto qualche problema nell'organizzarmi, una delle mie pecche è proprio la logistica: ho in mente cento cose e ne faccio centocinquanta in contemporanea! Trovo quindi questo lasso di tempo, il tempo dell'attesa, molto stimolante per migliorarmi sotto quell'aspetto. Voglio imparare a darmi dei ritmi da rispettare, senza disperdere energie e minuti in cento rivoli di attività e pensieri differenti.

Smanettare su una tastiera, registrare la propria voce che commenta un power point, intraprendere conversazioni in webcam sperando che i ragazzi partecipino sono tutte nuove abitudini a cui ci si deve abituare in fretta. Ahimè, i tempi in cui per far notare qualcosa bastava esprimersi attraverso qualche smorfia di disapprovazione in stile teatrale per farsi capire al volo, oppure incoraggiare qualcuno appoggiando una mano su una spalla - o meglio, date le mie mani notoriamente gelide, sul coppino, con la mia mossa "cattura-attenzione"- sono un bel ricordo per il momento. Anche ai ragazzi manca la routine, alcuni lo ammettono, altri sono più restii. Ma non è un caso se tra una videolezione e l'altra mi viene chiesto (un po' ridendo e un po' no) "possiamo fare l'intervallo?". E allora giù a creare "elenchi scaccianoia" che contengono titoli di librifilmserietvedocumentari, consigliare attività ricreative, cercare di essere loro vicini anche se filtrati da uno schermo.

Tra arcobaleni di speranza, compiti di realtà, saluti virtuali, quello che sto cercando di comunicare è che è necessario usare questo tempo in maniera diversa dal semplice aspettare.
Ungaretti lo sapeva che la guerra un bel giorno sarebbe finita. Nel frattempo, però, ha scritto quelle poesie su foglietti di fortuna che hanno permesso anche a noi di capire, cento anni dopo, il suo essere nel mondo.
Un invito a ognuno di noi: investiamo questo tempo nella ricerca del nostro "essere" in questo mondo. Riempiamo le stanze delle nostre case di questo senso, perché quando usciremo, arricchiremo tutte le persone che ci incontreranno.