La Rivista Culturale

mercoledì 7 settembre 2011

uno stralcio di racconto ripescato dal tempo..

"Fammi la magia dell'inchiostro blu." Tono senza richieste, al tabacco.
Il mio editore mi è di fronte, schiacciandomi coi suoi occhi color ebano.

Ha espresso una richiesta, e si aspetta che io la esaudisca.
Dita -le mie dita- contratte, per afferrare la labilità di un pensiero.
Quanto le ho allenate, a catturare quelli che dai più vengono chiamati "attimi".
Uno scatto e percorrevano il tragitto che le separava dalla pagina vergine e senza peccati.
La scia si posava con eleganza impetuosa sul bianco, impietosa decorazione di parole.
A colorare l'anima senza sangue di un foglio.
Sfumarne i possibili significati, smussarne gli angoli.
Impastarsi con la sua impassibilità e infondergli un bagliore di vita
Mettevo in circolo l'inchiostro per attivarne il cuore.
"Non posso." Appena sussurrato. Appena.
Nessun organo avrebbe potuto sopravvivere senza la carica dei battiti cardiaci. Nessun corpo. Neppure quello immobile di una patina di cellulosa.
Ho una necrosi del cuore in corso, mi dispiace Franco, nessuna magia sul tuo palcoscenico.
"Dopo l'ultimo racconto mi aspettavo qualcosa di più che una dichiarazione di incapacità. Mi deludi, sai?"
E se ti dicessi che lì dentro, in quello che definisci "racconto", ci avevo riversato tutto l'inchiostro contenuto nella gabbia toracica, proprio lì, tra i due polmoni?
Ho rischiato di soffocare, vittima del mio stesso trucco da prestigiatrice folle.
So che ti aspetti una mia iniezione di liquido blu.
È inutile che aspiri con più vigore, la sigaretta non può ribellarsi alla sua fine imminente, morirà bruciando di se stessa e su questo sì, hai il potere.
Alzo lo sguardo, incontro i tuoi occhi interrogativi e inizio a spogliarmi, lentamente, strato dopo strato di anima.
"Si, sono incapace. Di provare emozioni che trasformino l'astratto in parole che siano concrete. Di guarire dalle metastasi che mi impediscono di provare quello che la gente comune sperimenta, con cadenza quotidiana. Di sezionare il mondo con l'unica arma di cui ero provvista per affrontare le insidie che uccidono, la mia penna, scudo e fionda al tempo stesso.
Prima di conoscerti non potevo fare a meno di appuntare, registrare, immortalare esistenza, per ogni frangente di eternità.
Lo facevo per svuotare il male che si radicava nei nascondigli di un corpo giovane e instancabile come il mio. Ne ero dipendente, lo so.
Ma di quella droga non sarei morta, se non volontariamente.
Mi macchiavo di colpe che non avrebbero potuto essere assolte eccetto che con una confessione.
E questa arrivava, puntuale e precisa, con le mie storie. Solo loro mi pulivano.
Però poi, grazie allo sporco mondo dell'editoria, ho scoperto che non serve purificare l'anima per ottenere un Giubileo della durata di una storia da raccontare.
Pensavo ci si salvasse scrivendo, distillando goccia a goccia gli umori cattivi, sfino a sfiorare la maniglia di un Paradiso inarrivabile ma evidente.
Allora la pagina non era più una zolla pura da fertilizzare con semi di eloquenza, era un campo da arare per raccogliere i frutti già maturi che la penna materializzava.
E il contenitore di inchiostro, il calamaio e tutte quelle righe sconnesse ma così cariche di espiazione mi rendevano perpetuamente grazia.
Sei arrivato tu e hai risucchiato tutto, con la tua avidità.
Ti deludo, ma mantengo il mio onore. Non sono la tua sigaretta, decido io quando smettere di esistere per te."
Monologo di aria e rumori. Nessuna scia di inchiostro.
Dita -le sue dita- contratte, per afferrare una risma di fogli bianchi e gettarmela addosso.
Che dolce, questa cascata di candore su di me.
Socchiudo gli occhi, lascio che piovano sottili gocce cartacee e, come l'ultima lacrima di un calamaio, sparisco. 




Nessun commento:

Posta un commento